di Lorenzo Zirulia
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“The growing influence of industry in AI research”. E’ il titolo, esplicito, di un articolo recentemente pubblicato su Science da Nur Ahmed, Muntasir Wahed e Neil Thompson. I numeri: dal 2000 al 2020, la percentuale di pubblicazioni presentate alle più importanti conferenze di intelligenza artificiale (IA) e co-autorate da almeno un ricercatore occupato nel settore privato è aumentata dal 22 al 38%.
Se consideriamo i 10 modelli di IA di maggiori dimensioni, che costituiscono la frontiera della ricerca, la percentuale è addirittura passata dall’11% nel 2010 al 96% del 2020. Il ruolo ormai dominante dell’industria privata in questo ambito nasce dal crescente controllo dei tre input fondamentali nel “processo di produzione”. Per prima cosa, i dati: come è ben noto, grazie alle loro attività commerciali, le grandi imprese dell’economia digitale hanno accesso a dataset di grandi dimensioni e potenzialità economiche. In secondo luogo, i ricercatori, o il “capitale umano”: nel 2004, solo il 21% dei dottori di ricerca in IA in uscita dalle università nordamericane aveva trovato occupazione nel settore privato; nel 2020 la percentuale è stata quasi del 70%. In terzo luogo, la capacità computazionale: coerentemente con il dato riportato in precedenza, nel 2021 i modelli prodotti dal settore privato sono stati 29 volte più grandi di quelli prodotti dal settore pubblico, misurati in numero di parametri.
In che misura questi numeri dovrebbero preoccuparci? In fondo, una quota crescente di ricerca privata non è di per sé un problema, se accompagnata, come è il caso, da un aumento sia dell’investimento pubblico che dell’investimento privato1. Per le imprese, le più avanzate metodologie di deep learning consentono straordinarie opportunità di business, legate alla capacità di fornire su larga scala previsioni accurate a basso costo2. Inoltre, nella storia del capitalismo, i grandi investimenti in ricerca di base da parte delle imprese private non sono certo una novità3. Per di più, il confine fra ricerca di base e applicata è molto sottile nell’ambito dell’IA, come gli stessi autori dell’articolo sottolineano. Nella misura in cui le attività di ricerca delle imprese consentono a quest’ultime di sviluppare prodotti innovativi, anche i consumatori, e quindi la società nel suo complesso, se ne possono avvantaggiare.
Secondo Ahmed, Wahed e Thomson, due sono le ragioni per cui la tendenza in atto può essere ritenuta preoccupante. La prima, in un certo senso più tradizionale, è legata al fatto che la predominanza del settore privato ha un impatto sulla traiettoria perseguita dalla ricerca. Ovviamente, le imprese sono spinte a realizzare quegli investimenti che hanno la miglior ricaduta in termini di profitto. Questo le porta a trascurare forme di IA meno remunerative, o ambiti di applicazione con minore, o più incerte, ricadute economiche. Si tratta, quindi, di una classica argomentazione basata sui “fallimenti del mercato”, che lascia spazio a progetti di ricerca che, secondo gli autori, il settore pubblico a livello mondiale al momento non persegue a sufficienza.
La seconda ragione è legata invece alle specificità dell’AI, e alle considerazioni di ordine etico e sociale che solleva (basti pensare alla lettera aperta recentemente pubblicata, e firmata fra gli altri da Elon Musk e Steve Wozniak, che chiede l’interruzione delle attività di ricerca più avanzate nell’ambito dell’IA per almeno sei mesi). In questo contesto, forme di regolamentazione (basate su una visione ad ampio raggio) appaiono indispensabili (in tal senso si sta muovendo l’Unione Europea con la sua European AI Strategy). Una regolamentazione efficace, però, richiede competenze scientifiche e tecniche alla frontiera anche nel settore pubblico.
Per entrambe le finalità, un significativo aumento degli investimenti pubblici appare necessario. Ahmed, Wahed e Thompson riportano in tal senso alcune cifre emblematiche. Nel 2021, le agenzie statunitensi non militari hanno allocato circa un miliardo e mezzo di dollari nell’IA, che è la stessa cifra investita da Alphabet nel 2019 nella sola sussidiaria DeepMind. Gli investimenti della Commissione Europea sono stati persino inferiori. A livello europeo, però, per quanto necessario, l’aumento degli investimenti non basta. Accanto alle risorse e alla visione, è necessaria un’istituzione che sia il “braccio operativo” di una strategia transnazionale, e che disponga di risorse (dati, capitale umano, capacità di calcolo) comparabili a quelli privati. Il modello c’è, ed è quello delle infrastrutture di ricerca (si pensi ad esempio al CERN), delineato da Massimo Florio nel suo volume “La privatizzazione della conoscenza”. Concludendo con le parole di Florio: “(…) non si tratta di immaginare un sistema chiuso e autoreferenziale, ma al contrario aperto a partnership con organizzazioni pubbliche e private già esistenti, (…) costruendole a partire da risorse adeguate comparabili con i budget annui di ricerca e sviluppo dei grandi attori in campo (…). Serve reclutare le persone giuste, le menti più brillanti del mondo, finanziare i progetti, investire nelle infrastrutture (…).”
NOTE:
1 Per l’Europa, si veda ad esempio “AI Watch: Estimating AI Investments in the European Union” (https://ai-watch.ec.europa.eu/publications/ai-watch-estimating-ai-investments-european-union_en).
2 Si veda ad esempio il volume di Agrawal, Gans e Goldfarb. “Prediction machines: the simple economics of artificial intelligence”, per un’argomentazione teorica ed esempi in tal senso.
3 Si veda il contributo classico di Nelson, “The simple economics of basic scientific research.” Journal of Political Economy, 1959, o il recente (2022) “The rise of scientific research in corporate America”, di Arora, Belenzon, Kosenko, Suh e Yafeh, NBER Working paper N°29260.