Questo documento è la sintesi di una discussione interna alla redazione su cosa sia ricerca pubblica. Ad un anno dalla scrittura del manifesto e dalla pubblicazione dei primi post, abbiamo preso il tempo di confrontarci: ognuno di noi ha scritto un breve testo con l’obiettivo di definire la ricerca pubblica, li abbiamo condivisi e ne abbiamo discusso tra di noi. Il documento parte dalla misurazione statistica della ricerca e, superando la classificazione economica dei beni, tenta di reinserire un significato “politico” su chi debba prendere le decisioni in ambito di ricerca pubblica.
La misurazione statistica della ricerca (pubblica)
Quando leggiamo notizie giornalistiche, statistiche ufficiali o articoli scientifici sulla ricerca pubblica – in Italia ma non solo – troviamo sempre riferimento a ciò che gli enti pubblici di ricerca e le agenzie ministeriali svolgono o finanziano come attività di ricerca. Se seguiamo le linee guida ufficiali (OECD, Manuale di Frascati, 1963-2015), possiamo distinguere la spesa totale per ricerca e sviluppo (R&S) eseguita in un paese (cosiddetto GERD) in:
- R&S eseguita da imprese private (BERD);
- R&S eseguita dal settore governativo (GOVERD);
- R&S eseguita dal settore accademico/alta educazione (HERD);
- R&S eseguita dal settore no-profit (PNPRD).
Se ragioniamo invece su chi finanzia la R&S in un paese, ai quattro settori sopra va aggiunta la categoria “finanziata dall’estero”, che permette di cogliere il ruolo svolto da attori esteri (le imprese multinazionali), la cui importanza è crescente. Sebbene quasi tutti i paesi del mondo vedano queste diverse voci, la distribuzione varia sensibilmente da paese a paese (sia per il finanziamento che per lo svolgimento delle attività di ricerca). Se da una parte i paesi a capitalismo avanzato vedono una prevalenza del settore privato, in quelli emergenti generalmente il ruolo dello stato è preminente, ma a questo quadro di massima vi sono comunque importanti eccezioni[1].
Il concetto di finanziamento “pubblico”[2] implica che le istituzioni di ricerca pubblica ricevano finanziamenti dal governo o da enti pubblici, il che significa che si basano su risorse finanziarie provenienti dalla fiscalità generale. In anni caratterizzati da un continuo dimagrimento dei bilanci pubblici, è inevitabile che questa voce della ricerca abbia subito un drastico ridimensionamento.
Nell’ambito degli studi di innovazione, questa categorizzazione porta ad analizzare tre dimensioni non indipendenti: produzione, diffusione e finalità. Queste dimensioni, come mostrato in Archibugi e Filippetti (2018),[3] sono principalmente determinate dal tipo di attori che svolgono e finanziano la ricerca. Questi autori (p. 103) qualificano principalmente le prime due dimensioni: produzione e diffusione.
La tassonomia, seguendo la distinzione di Olstrom tra bene pubblico e privato[4], mostra anche come il meccanismo allocativo delle risorse disponibili sia una dimensione da tenere in conto: è necessario che l’allocazione delle risorse sia il risultato di una “scelta politica”, in contrapposizione a meccanismi di mercato, per caratterizzare un bene pubblico.
Il concetto di “scelta politica” è però complesso se non addirittura ambiguo perché necessita di definirne le finalità. Per alcuni, per finalità pubblica della ricerca si intende che essa ha come obiettivo la comprensione di fatti fondamentali (ricerca di base) e/o deve rispondere a problematiche di natura sociale (ad esempio il cambiamento climatico). Più in generale si può ritenere che la ricerca tutta dovrebbe essere orientata al bene comune (Tirole, 2017).[5] A ciò si collega spesso la possibilità di prevedere un “accesso aperto” ai risultati della ricerca, in altre parole la ricerca pubblica promuove l’accesso a tutti delle scoperte e dei risultati, e così facendo permette ad un vasto pubblico di beneficiarne senza restrizioni. La ricerca pubblica diventa quindi uno strumento politico, insieme alle politiche fiscali, alle norme giuridiche (ad esempio nell’ambito della proprietà intellettuale) per perseguire una finalità che è in ultima istanza sociale.
Se la finalità è il bene comune,[6] va allora definito molto bene cosa esso sia. Ma anche la definizione di “bene comune” può essere ambigua. Se affermiamo che la ricerca pubblica persegue il bene comune, intendiamo che essa è spesso orientata verso obiettivi di interesse pubblico, come la salute, l’ambiente, l’istruzione, l’innovazione e la tecnologia. Infatti, il concetto di “bene comune” si riferisce a risorse o benefici che sono condivisi dalla collettività e che sono considerati di vitale importanza per il benessere e la prosperità della società nel suo complesso. Questi beni comuni sono di solito accessibili a tutti i membri della società, senza restrizioni o discriminazioni, e spesso non sono appropriabili da parte di singoli individui o gruppi. Essi possono includere risorse naturali, servizi pubblici, conoscenze, infrastrutture e altro.
Ricerca pubblica, come ricerca finanziata e svolta da attori pubblici in seguito ad una scelta politica su obiettivi/finalità (questo sì, questo no) e con pratiche di ‘scienza aperta’, cioè volte alla condivisione e diffusione dei risultati e alla trasparenza dei processi. La discussione, in questi termini rischia di essere astratta. È possibile fornire una definizione di ricerca pubblica senza tenere conto del contesto storico istituzionale?
Dobbiamo di conseguenza allargare il discorso sulla ricerca pubblica: se lo svolgiamo su un piano ontologico od epistemologico, non possiamo prescindere dai fattori di contesto, che siano essi politici o dell’assetto economico-tecnologico ed istituzionali dell’occidente avanzato, né da fattori teorico-concettuali, che per quanto vetusti hanno caratterizzato il dibattito accademico (e politico) dagli albori delle scienze economiche – e non solo – ad oggi.
Cosa significa pubblico?
Il primo piano ci impone di pensare al ruolo ed ai confini della ricerca pubblica in un contesto in cui l’attore pubblico ha subito ridefinizioni e ribaltamenti concettuali e fattuali non indifferenti. Alla tradizionale distinzione tra Stato e Mercato, in cui al primo si riconosce il primato della sfera pubblica, ed al secondo quello della sfera privata, si sono inseriti elementi di ambiguità con un affievolimento dei confini sia reali che concettuali tra i due.
Questo lo si evince osservando l’evoluzione dei diversi sistemi economico-istituzionali ed innovativi dei paesi dell’Occidente avanzato. Con, ad esempio, il gruppo delle economie dei paesi anglosassoni che hanno fatto primeggiare una concezione del pubblico priva della sua componente statuale. In questo ambito si potrebbe dire che la definizione del pubblico non dipende più dal soggetto che eroga il bene pubblico (sia Stato o Mercato), ma dalla natura del bene stesso.
Per fare un esempio, la ricerca condotta da soggetti privati per il vaccino Covid, rientra nella sfera pubblica nella misura in cui i soggetti che l’hanno condotta, prevalentemente privati, sono stati da una parte finanziati dallo Stato, che ne è il committente, ed hanno perseguito un fine di interesse generale (pur se nel farlo hanno anche soddisfatto un interesse privato, il profitto).
Questo esempio però mette in luce anche il cortocircuito che emerge da un assetto politico-economico ed istituzionale in cui il perseguimento di obiettivi di natura pubblica (la ricerca mirata, ad esempio, a: la scoperta dello spazio, la lotta ai cambiamenti climatici, la cura delle persone, ecc.) sono condotti da soggetti tipicamente privati (imprese, ed imprese solitamente di grandi dimensioni), che in ultima analisi hanno come obiettivo la remunerazione del capitale. In questi casi infatti, il privato, in via della sua missione istituzionale (la remunerazione degli azionisti, il profitto ecc.) decide sull’uso della ricerca o ne limita i benefici. Come si risolve questo corto circuito? Questo deve essere oggetto di una trattazione specifica e separata.
Attore privato ed utilizzo e produzione di beni pubblici: come fare?
Per cercare di definire i confini del discorso che impone questa domanda riprendiamo il secondo fattore, quello teorico concettuale. La natura “pubblica” della ricerca ci riconduce alla definizione economicista del bene pubblico: un bene che è indivisibile e non appropriabile, la cui produzione genera inefficienza e quindi lascia il campo all’intervento pubblico. In questa definizione non vi è una dimensione normativa. Tant’è che nel tempo il cambiamento tecnologico ha modificato, ed in molti casi ridotto, il perimetro dei beni pubblici (si pensi al settore dei trasporti, delle telecomunicazioni, ecc.).
Ma se riteniamo che la natura pubblica abbia a che fare anche con il soggetto che produce quel bene, in virtù della missione che questo soggetto persegue, allora la definizione economicista aiuta solo in parte a dare una risposta alla domanda di cui sopra.
Questo tema è stato posto con forza, ad esempio, dal recente dibattito sulla natura dello Stato Imprenditore (vedi Mazzucato[7]) e sul ruolo e la natura dell’intervento pubblico in economia e nello specifico nella ricerca pubblica; ma anche dai seguaci del Beni Comuni (tra gli altri in Italia Ugo Mattei), che auspicano una terza via tra Stato e Mercato[8].
Ma ciò chiama in causa anche altri due aspetti, uno teorico – davvero lo Stato persegue il bene pubblico? – uno contestuale, da ricondursi al ritmo crescente del cambiamento tecnologico, ed in particolare alle sfide che pone l’intelligenza artificiale anche alla sfera della ricerca pubblica. Se cambia il quadro in cui la conoscenza viene prodotta e condivisa, fino a che punto le pratiche quotidiane, e le sovrastrutture teoriche che le hanno giustificate, hanno ancora senso e possono guidarci nella nostra azione quotidiana?
In questo articolo ci siamo allora dati un primo obiettivo, ossia quello di chiarire meglio gli aspetti definitori ed abbiamo iniziato con quello di “ricerca pubblica” ma, in fin dei conti, non siamo arrivati ad una conclusione univoca. Ciò perché prima vanno definiti meglio tanti altri concetti: pubblico, privato, statale, sociale, comune, collettivo, e così via. Per non dire del fatto che questo pubblico non può più essere recintato all’interno dei confini nazionali, come dimostrano le ultime crisi dal carattere apertamente sovranazionale (pandemia, cambiamento climatico). Senza entrare troppo nel dettaglio, vogliamo far emergere le distinzioni sostanziali e/o le incongruenze che si possono trovare anche nelle classificazioni dominanti, spesso ideologiche. Come nel caso dei “beni pubblici globali/internazionali” o “beni comuni transnazionali”. Per farlo, è importante tornare ai classici.
Cosa intendiamo per pubblico? Chi è pubblico? Tutti quanti?
Se serve, si può tornare anche ai pensatori molto lontani nel tempo, come Cicerone che rispetto al concetto di “pubblico” nel “De Repubblica” argomenta che “la res publica è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione del diritto e per la tutela del proprio interesse”. Quindi di fatto si intende che ci sono gruppi di individui (o potremmo dire classi sociali) che hanno un diritto soggettivo, ossia sono interessati ad avere la proprietà di un bene, che è poi il nascondimento dei rapporti sociali esistenti[9]. Quindi “pubblico” è un qualcosa che:
- Implica la proprietà di una moltitudine di persone, il che porta a diversi problemi di politica economica (ad esempio nella scuola della scelta pubblica, o prima in Pareto o ancora prima nel ‘700 in Condillac, Smith ecc.) in merito alla scelta, perché non sempre ci può essere l’unanimità. Chi decide per tutti? Come si decide? A maggioranza? Senza scontentare nessun individuo? E così via.
- Implica i concetti di proprietà e di soggettività: non si deve guardare – come detto sopra (Stato vs. Mercato) e come fa tutta l’economia mainstream, neoclassica o del benessere – alle caratteristiche intrinseche dell’oggetto (ad esempio: un bene è pubblico perché caratterizzato da “non rivalità” e “non escludibilità”): pubblico o privato devono essere riferiti al soggetto cioè a colui o coloro che detengono la proprietà di quella cosa.
Ne consegue che la definizione delle finalità di una certa attività di più persone (ad esempio appunto la ricerca pubblica) è in capo a chi ne abbia la proprietà. Sui beni privati ciò è scontato: se “una cosa è mia”, ovviamente io ci faccio quello che voglio; quindi il fatto che io possa stabilire la finalità viene a valle del fatto che io ho quel diritto soggettivo, ossia la proprietà di quel bene. Invece sul concetto di “pubblico” questa cosa si complica. In particolare, avviene una sovrapposizione, un accoppiamento del concetto di pubblico con quello di statale: ciò anche nel diritto,[10] per cui i beni pubblici sono i beni che appartengono allo Stato o ad altri enti territoriali.
Se quindi chi decide è il proprietario (intendendo non immediatamente la proprietà oggi prevalente, ossia quella privata, ma il concetto atavico di proprietà), significa che le finalità più o meno pubbliche vengono definite da chi ha questo titolo di proprietà. Nella ricerca pubblica, allora, per definire cosa ricercare. Quindi si fanno le ricerche mediche per le malattie rare oppure non si fanno a seconda del titolare del diritto soggettivo che potrebbe avere un livello di coscienza sociale/umana molto differente. Se io mi sento parte dell’umanità dico: sì, è vero, questa malattia ce l’hanno solo 10 bambini del mondo ma sono contento che si usino i miei soldi e, visto che sono io proprietario della ricerca, voglio indirizzare la finalità verso quello. Viceversa, se io sono quello che cerca di ottenere il massimo profitto possibile, ragionerò sì per fare ricerca sulle malattie (quindi apparentemente con una finalità pubblica) ma limiterò la ricerca a quelle malattie che oggi monetizzano di più (prostata, diabete, ecc.). Con poca attenzione alle prospettive future e con più schiacciamento sul presente, con ricerche dal corto respiro che riflettono la ricerca di profitto di breve periodo (cosiddetto short-termism).
Conclusioni
Possiamo quindi cercare di offrire una definizione di ricerca pubblica incentrata sulla governance. Ricerca pubblica è sì l’insieme di tutte le risorse economiche di proprietà degli Stati e “intraprese per aumentare il patrimonio delle conoscenze, comprese quelle relative all’umanità, alla cultura e alla società, e per concepire nuove applicazioni delle conoscenze disponibili”:[11] risorse impiegate sia direttamente (quindi con laboratori e macchinari di proprietà statale e con il lavoro di ricercatori e tecnici “pubblici”) sia indirettamente (attraverso la domanda pubblica di ricerca svolta da soggetti privati). Ma ciò non basta: per essere davvero ricerca pubblica, è necessario un intervento più esplicito dei proprietari di tali risorse economiche nel processo decisionale del loro utilizzo.
Come?
- Con il maggior coinvolgimento dei cittadini per scelte critiche fatte con denari pubblici (si pensi ai referendum del 2011, in cui si chiedeva la gestione pubblica dell’acqua, poi disattesi);
- con un maggiore ascolto degli stessi lavoratori della ricerca, che quasi sempre hanno pochissima voce in capitolo sui contenuti del loro lavoro;
- con maggiore presenza nel dibattito pubblico.
Se non si persegue questo cambio di governance, la ricerca statale si mostra per essere appannaggio di un’oligarchia di decisori “pubblici” – sia politici sia tecnici – che fanno scelte di indirizzo che potrebbero andare addirittura contro l’interesse pubblico. E avvantaggiare, anche a causa della corruzione, l’interessi di pochi soggetti privati.
[1] Se nel 2021 le spese governative nell’Europa a 27 stati coprivano in media circa il 30% della spesa totale in R&S, questo valore era pari a circa il 16% in Irlanda e circa il 44% in Grecia. Differenze minori si riscontrano tra le economie più grandi, come ad esempio Germani, Francia ed Italia, che hanno rispettivamente circa il 29%, il 32% ed il 36% (fonte Eurostat Intramural R&D expenditure – GERD by source of funds).
[2] In questo articolo, utilizziamo “pubblico” fra virgolette quando è un sinonimo ambiguo di statale o, più in generale, quando è utilizzato come aggettivo accanto a sostantivi diversi che portano a implicazioni molto differenti fra loro. Habermas inizia il suo Storia e critica dell’opinione pubblica (1962) proprio sostenendo che “l’uso linguistico di ‘pubblico’ e di ‘sfera pubblica’ tradisce una molteplicità di significati concorrenti. Essi risalgono a diverse fasi storiche e, una volta applicati sincronicamente ai rapporti della società borghese industrialmente avanzata e organizzata nelle forme dello Stato sociale, stabiliscono contatti equivoci”.
[3] Archibugi, D., & Filippetti, A. (2018). The retreat of public research and its adverse consequences on innovation. Technological Forecasting and Social Change, 127, 97-111.
[4] Per un approfondimento si veda il libro Ostrom, E. (1990). Governing the commons: The evolution of institutions for collective action. Cambridge university press.
[5] Tirole, J. (2017). Economia del bene comune. Edizioni Mondadori.
[6] Su questa tematica si veda il recente articolo di Mazzucato (2024) Governing the economics of the common good: from correcting market failures to shaping collective goals. Journal of Economic Policy Reform, 27(1), 1-24.
[7] Mazzucato, M. (2014). Lo Stato Imprenditore. Laterza.
[8] Mattei, U. (2011). Beni Comuni, un Manifesto. Laterza.
[9] Ci si richiama qui al concetto marxiano di reificazione, ossia del fatto che nel modo di produzione capitalistico i rapporti sociali si configurano come rapporti tra cose. “L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi del prodotto di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali” (K. Marx, Il Capitale, I, 1).
[10] Ciò anche se il diritto distingue fra “bene pubblico” e “bene di interesse pubblico” (si veda https://www.treccani.it/enciclopedia/beni-pubblici-e-di-interesse-pubblico). Distinzione che invece in ambito economico non esiste.
[11] Definizione statistica di R&S in: OECD, Manuale di Frascati, 1963-2015.